Il favoloso mondo di Amélie

Era il 2001 quando questo film uscì nelle sale di tutto il mondo, riscuotendo un inaspettato successo.

Un anno in cui, appena prima che gli attentati alle Twin Towers sprofondassero il mondo nell’incubo del terrorismo, il cinema indie (europeo e americano) aveva ancora voglia di trasmettere, a suo modo, un istintivo e limpido senso di positività, un ottimismo in cui le diversità, di qualunque genere fossero, venivano declinate in termini non necessariamente negativi. Un mondo in cui la diversità e l’eccentricità divenissero fonti di arricchimento, potenzialmente salvifiche, ai confini con l’intervento di un deus ex machina celestiale e alieno.

Proprio quale aliena curiosa, insaziabile di stimoli e percezioni, dall’inesausta e “gratuita” attitudine all’aiuto del prossimo, viene dipinta Amélie Poulain, magistralmente interpretata da Audrey Tatou.

Un essere solitario e tuttavia capace di godere in modo tutto particolare dell’altrui presenza, gratificato nell’ammirare (da lontano, come da dietro lo schermo di un televisore in bianco e nero) i benefici effetti della sua azione sulle vite degli altri.

Il titolo italiano del film di Jeunet contiene la parola “mondo” (sostitutiva del “destin” del titolo originale); una scelta che potrebbe risultare fuorviante, visto che il mondo che la protagonista vive e respira, percependolo con un’intensità e una brama inusuali, è esattamente il nostro. Quello della vita quotidiana di una metropoli, della banalità di un lavoro da cameriera, delle schermaglie tra gli avventori, dei racconti occasionali dei vicini di casa, del rapporto con un padre problematico e chiuso nella sua solitudine.

Sono la qualità della percezione, appunto, e la sua straordinaria intensità, a fare la differenza: il mondo di Amélie Poulain diventa “favoloso” (ovvero assume, letteralmente, la consistenza e il tono della fiaba) per il modo in cui lei lo esperisce e lo vive.

Così, un oggetto caduto in terra a seguito di un evento occorso altrove si fa origine (grazie all’attenzione e alla curiosità della protagonista) di una straordinaria e avventurosa ricerca, che diviene persino suggestiva di una vocazione.

Così, il felice esito di quella prima “missione” convince Amélie (in una particolare declinazione del pensiero magico) che la felicità degli altri possa essere la sua personale fonte di realizzazione e senso. Come i messianici alieni immaginati oltre un ventennio prima da Steven Spielberg, o come un laico e vitalissimo angelo.

Non vengono mai menzionate, e nemmeno suggerite, le parole “autismo” o “Asperger”, nel film di Jeunet: ma la cosa, in sé, è assolutamente secondaria.

Nell’attitudine a una solitudine esperita tra gli altri, in un senso di pienezza e gioia personale che non ha voglia, o bisogno, di esprimersi all’esterno, in un’empatia affettiva ed emozionale che letteralmente inonda di sé la persona, Amélie mostra tutte le caratteristiche ben conosciute da chi ha dimestichezza con la Sindrome.

Le mostra, soprattutto, in una sensorialità straordinariamente sviluppata (catturata, visivamente, dalla fotografia dai toni surreali e pastello di Bruno Delbonnel, qui candidato all’Oscar), nella sempre presente attenzione ai dettagli, in quel godere così peculiare (e atipico) di piaceri tattili poco frequentati dal mondo neurotipico, come la mera immersione di una mano in un contenitore pieno di legumi. Un rapporto, quello della protagonista con la sensorialità, di cui qui vengono esaltati quegli aspetti (troppo spesso trascurati dai film specificamente dedicati all’autismo) più positivi e rigeneranti.

“Aliena terrestre” convinta di trarre giovamento solo dall’agevolare, e infine dal contemplare soddisfatta, l’altrui realizzazione, Amélie entrerà in crisi (e si troverà a un bivio) quando scoprirà che forse, su questo mondo, c’è una possibilità di realizzazione vera e attiva anche per lei. Aiutare se stessa, laddove finora ha così efficacemente e silenziosamente aiutato gli altri, si rivelerà decisamente più complicato. Ma i semi da lei piantati, come nella migliore tradizione dei racconti morali (e delle fiabe) daranno infine i loro frutti: frutti dal gusto sconosciuto, ma proprio per questo tanto più gratificante e inebriante.

Da assaporare appieno, in quel modo singolare e unico che ormai abbiamo imparato a riconoscerle.

Autore: Marco Minniti

Liberamente tratto da: www.spazioasperger.it